Intervista a Dagmawi Yimer

Paolo Castaldi ha realizzato questa intervista a Dagmawi Yimer

Dagmawi Yimer cresce nella kabalè numero 12 di Kirkos, quartiere tra i più poveri di Addis Abeba, in Etiopia. Dopo aver frequentato giurisprudenza nella capitale, nel 2005 parte per l’Italia senza avvisare il padre, ma soltanto la madre e la sorella, emigrate a Washington. Il suo viaggio da Kirkos a Lampedusa, raccontato nel film documentario Come un uomo sulla terra, prodotto nel 2008 da Asinitas Onlus e Zalab per la regia di Andrea Segre, Riccardo Biadene e dello stesso Yimer, si rivela infinito e drammatico.
Dal 30 luglio 2006, giorno dello sbarco a Lampedusa, Yimer vive in Italia grazie alla protezione umanitaria dello Stato italiano. è co-autore, insieme con altri migranti, del documentario Il deserto e il mare, nato dall’idea di raccogliere e archiviare le memorie del migrante e prodotto in collaborazione con Asinitas Onlus, Zalab e Aamod. Ha realizzato i cortometraggi Lo scarabocchio, Le sagome, Caravan, e assieme a Marco Carsetti Benvenuto a casa tua, sulle attività della scuola Asinitas. Tra i suoi lavori più personali, Yimer ha realizzato Soltanto il mare, vero atto d’amore nei confronti di Lampedusa, l’isola che lo ha saputo accogliere.

Paolo
Com’era la tua vita ad Addis Abeba, prima di prendere la decisione di partire per l’Italia? Quali sogni e ambizioni avevi?

Dagmawi
Quando ero al liceo discutevo spesso con i miei compagni di scuola, e anche in famiglia, del mio progetto di vita in Etiopia. Non ho mai sognato di lasciare il mio Paese, mi divertivo a sognare una vita serena e felice dove sono nato e cresciuto.
Tra le belle cose che ricordo della mia infanzia, e che credo abbia avuto un grande impatto nella mia vita, c’è la scuola materna ed elementare che frequentavo. Era una scuola che ospitava bambini da tutte le parti dell’Africa francofona e dalla Francia, in cui la diversità riusciva a creare un ricco mosaico di culture, religioni, lingue, accenti. Tutto questo mi è servito molto, mi ha insegnato a vedere la bellezza della diversità.
Ho iniziato a studiare giurisprudenza dopo aver lavorato come addetto alle vendite in un’azienda di un amico che tosta il caffè, e lo distribuisce ad Addis Abeba e altrove.
La mia adolescenza è stata normale, come quella di un semplice ragazzo metropolitano europeo.
Mi piaceva leggere, soprattutto letteratura russa, ascoltavo musica statunitense, giocavo a calcio e in una squadra di pallacanestro, in serie B. Quando avevo tempo e occasione partivo alla scoperta dei diversi luoghi dell’Etiopia.
Tutto questo “sogno”, però, si è spezzato quando mi sono reso conto che la libertà di far sentire il proprio dissenso contro un’idea costa la vita. La via per una lotta democratica è stata demolita dal Governo, che per combattere la democrazia – di cui ha paura – ha usato la violenza.

Paolo
Come è percepito dall’opinione pubblica del tuo Paese, il fenomeno dell’immigrazione verso l’Europa?

Dagmawi
Nel mio Paese il fenomeno migratorio non è molto conosciuto. C’è scarsa informazione, anche perché siamo davvero in pochi a tentare questo viaggio in rapporto al resto della popolazione di circa 80 milioni di persone.
Le rotte sono diverse e cambiano di volta in volta, quella più conosciuta era la fuga di inizio anni Novanta, verso il Kenya. Alla fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo secolo, invece, verso il Sud Africa.
Molto poco, invece, si sa sulla rotta verso lo Yemen e la Libia per arrivare in Europa, e verso l’Egitto per arrivare in Israele.

Paolo
Il tuo ultimo lavoro, Soltanto il mare, viene spesso interpretato come un gesto d’amore e di riconoscenza verso l’isola di Lampedusa. Come ricordi quei primi momenti, appena sbarcato?
Dagmawi
Lampedusa è la terra dove ho scritto un nuovo capitolo della mia vita. Mi ricordo poche cose del mio sbarco, solo un’immagine forte: la bella mattina di luglio, il colore del mare, e i turisti sulla spiaggia. Le sensazioni che ho provato erano due: la prima, la gioia e il sollievo di essere arrivato sano e salvo, lontano dalla morte e dalla sofferenza libica. L’altra era l’imbarazzo, l’umiliazione di essere parte di questa tragica fase storica del popolo africano che fa di tutto per fuggire dal proprio continente. La vergogna, davanti alle telecamere, con la gente curiosa intorno, e io che mi ritrovo scalzo, assetato, affamato.
Sono tornato sull’isola con una telecamera per girare il documentario, e ho avuto finalmente la possibilità di incontrare le persone. L’incontro che non è mai stato possibile nei miei sette giorni di soggiorno nel centro di accoglienza. Sono cambiato di poco, dallo sbarco: un pezzo di carta in mano (che mi permette di spostarmi legalmente), uno sguardo da documentarista e una lingua acquisita nei tre anni trascorsi in Italia.
La scena del film che più mi colpisce è l’incontro con l’equipaggio della guardia costiera che mi ha soccorso e portato sull’isola. Sono salito sulla motovedetta, questa volta come Dagmawi, anzi come Dag, non come il numero 8 del quarto sbarco del 30 luglio 2006.
L’incontro con il capitano e con l’equipaggio è stato così toccante che alla fine nessuno è riuscito a parlare, tanta era l’emozione da entrambi le parti.
Il mio ritorno è anche un modo di ritrovare una dignità perduta, e anche restituire la bella immagine dell’isola, che è stata bombardata dai media. Ho scoperto che i lampedusani ci chiamano “turchi”, che gli sbarchi sembrano diminuiti, ma che i veri problemi dell’isola sono ancora tutti lì.

Paolo
Cosa ne pensi della gestione del fenomeno migratorio da parte del Governo italiano? Se potessi scrivere una proposta di legge, quale suggeriresti per poter migliorare le cose?

Dagmawi
Le leggi esistono da quando l’Italia ha ratificato la convenzione di Ginevra, nel 1951. La politica dei così detti “respingimenti” è crudele, soprattutto perché si è consapevoli che i migranti vengono restituiti alle “fauci del lupo”, cioè alle autorità libiche, senza nemmeno accertare l’identità del singolo individuo. Con la legge sui respingimenti, l’Italia è diventata di fatto un pericoloso laboratorio per possibili negazioni dei diritti umani più basilari. E il Governo attuale non dice la verità quando annuncia che l’immigrazione clandestina è stata bloccata, quando fa credere che il flusso d’immigrazione arriva solo via mare: la realtà è che solo il 10% dei migranti giunge in Italia dal mare, e solo alla metà di questi viene riconosciuto lo status di rifugiato. L’Italia potrebbe permettersi di investire sull’integrazione, ma preferisce spendere soldi ed energie in accordi commerciali con il Governo libico. Insieme a Fortress Europe, Amnesty International e il gruppo di Come un uomo sulla terra, abbiamo fatto tutto il possibile per dare voce alle sofferenze dei rifugiati in Libia. Nonostante questo la politica europea non ha fatto niente, a parte criticare verbalmente i respingimenti compiuti dall’Italia.

About admin